Pregi e difetti della birra

Pregi e difetti della birra (parte 1)

Tra i vari difetti riscontrabili nelle birre, ce ne sono alcuni imputabili alla selezione non proprio ottimale degli ingredienti, alla formulazione delle percentuali in ricetta o alle procedure di produzione attuate.

Amaro.

Un amaro troppo spinto, per esempio, potrebbe essere un difetto dovuto all’errata formulazione della ricetta, ad una maldestra selezione della varietà di luppolo da amaro ed ai tempi di bollitura, probabilmente, troppo lunghi. Tuttavia, se questo è vero per le birre chiare, non è una verità altrettanto assoluta per quelle ricette in cui decidiamo di utilizzare grandi quantità di cereali tostati e/o torrefatti. Questi ultimi, infatti, contribuiscono non poco ad amaricare la birra ed i tannini estratti delle loro glumelle aumentano la sensazione di astringenza dell’amaro. Per ridurre l’estrazione di tannini, dobbiamo fare in modo che la molitura dei grani avvenga senza frantumare le glumelle. Inumidendo leggermente i cereali un’ora prima della molitura, renderemo le glumelle più elastiche e resistenti alla molitura.

Astringenza.

L’astringenza è una sensazione boccale che ci porta a percepire un senso di asprezza particolarmente intenso. Questa sensazione amplifica alcune percezioni come l’amaro, l’acido e l’aspro. Si percepisce, per esempio, quando mangiamo un agrume non ancora perfettamente maturo e viene recepito dalle papille gustative della lingua, del palato e delle gengive. Le cause che adducono astringenza alla birra sono molteplici e dipendono principalmente dalla percentuale di tannini e polifenoli contenuti nel mosto. Questi vengono estratti dalle glumelle dei cereali, in fase di ammostamento e sparging, ma anche dalla bollitura prolungata di luppoli con alto tenore di α-acidi. Un pH superiore a 5,8 facilita l’estrazione ed isomerizzazione di questi composti, intensificandone il senso di astringenza percepito. La carenza di destrine, dovuta ad un’eccessiva attenuazione del lievito, può essere una delle cause che portano ad una maggiore sensazione di astringenza, ma anche un’infezione da batteri e lieviti selvaggi, inacidendo il mosto, aumenta questa sensazione.

Dolcezza.

Per contro, una dolcezza troppo spiccata potrebbe derivare da una scarsa luppolatura durante la fase di boiling o dalla selezione di un luppolo con un potere amaricante troppo blando. Nella sezione approfondimenti, analizziamo il rapporto che ogni birra dovrebbe avere per mantenere l’equilibrio tra dolcezza e amarezza (Il rapporto BU:GU e RBR), in modo da non essere stucchevole né farci strizzare gli occhi per l’amarezza. Quando la birra è sbilanciata in favore di una eccessiva dolcezza, la causa potrebbe anche derivare da un problema di fermentazione, o da un grist composto per la maggior parte da cereali a basso potere diastatico. Il 90% dei cereali maltati comunemente acquistabili nei negozi specializzati in prodotti per Homebrewing (qui ne trovi alcuni), non possiede la capacità di rilasciare gli enzimi preposti alla diastasi (saccarificazione degli amidi). Quando una ricetta viene formulata con una alta percentuale di questi cereali, durante l’ammostamento il processo di saccarificazione non viene completato, ed il mosto arriva in fermentazione con una alta percentuale di amidi, che non verranno metabolizzati dai lieviti, lasciando la birra poco attenuata, dolce e con un forte sapore di lievito. Per questo motivo si usa fare il test della tintura di iodio; reagendo in presenza di amidi, la tintura ci avverte che la conversione non è terminata, dandoci la possibilità di prolungare l’ammostamento finché gli amidi non verranno totalmente convertiti. Anche la scelta di utilizzare lieviti poco attenuanti restituisce birre dolci. La ridotta capacità di alcuni ceppi di trasformare gli zuccheri in alcol fa sì che, una gran parte di questi, restino in soluzione integri, ritrovandoli poi nella birra finta.

Alcol.

La carenza di ossigeno e sostanze azotate durante l’inoculo spinge i lieviti a produrre alcoli superiori. Ciò accade a seguito della metabolizzazione degli acidi grassi e si traduce in un aumento della concentrazione di questi alcoli a catena lunga, che apportano alla birra finita un forte sentore alcolico, percepito come un bruciore in gola. Questo fenomeno avviene anche in presenza di mosti con densità alte, o fermentazioni a temperature oltre il limite previsto per il tipo di lievito. Tuttavia, la presenza di alcoli superiori in alte concentrazioni, seppur considerata un difetto in molti stili birrari, è tollerata (ma non desiderata) quando la ricetta in questione è orientata alla produzione di birre molto alcoliche, come le Barleywine, le Strong, le Doppelbock, le Tripel e le Imperial.

Corpo.

La sensazione di pienezza di sapori donata da alcune birre stimola il cervello a percepire la bevanda come corposa, pastosa, vellutata. La carenza di zuccheri solubilizzati riduce questa sensazione che è recepita principalmente a livello linguale e palatale.  La scarsità di destrine può, in alcuni casi, essere ritenuto un difetto. Per esempio, birre che richiedono un corpo pieno e rotondo necessitano di un alto livello di destrine. Gli amidi estratti dai cereali subiscono l’azione degli enzimi α-amilasi, che li convertono in trisaccaridi e polisaccaridi, ovvero zuccheri complessi e destrine non metabolizzabili dai lieviti. Questi zuccheri complessi, non essendo tra quelli fermentati dai lieviti, rimangono nella birra donando dolcezza e corposità. La scarsa presenza di questi composti nel mosto, il più delle volte, è riconducibile ad una ridotta o assente pausa di ammostamento a temperature superiori a 68°C. Anche l’utilizzo di un lievito particolarmente attenuante riduce la quantità di zuccheri, apportando secchezza e riducendo il corpo della birra. L’aggiunta di zuccheri semplici, al solo scopo di aumentare la densità del mosto comporta, al contrario, un aumento del potere alcolico ed una ulteriore riduzione del corpo della birra finita. Le proteine possono contribuire a dare spessore alla birra. I malti Pilsner, per esempio, sono quelli più ricchi di proteine, e dovrebbero essere preferiti al Pale come malto base quando decidiamo di produrre stili birrari la cui corposità è tra le principali caratteristiche richieste. Tuttavia, una prolungata pausa a 53°C tende a ridurre la concentrazione di proteine, disgregandone le catene, che finiranno poi per coagulare durante la fase di bollitura.

Colore e limpidezza.

L’aspetto visivo di una birra è un input sensoriale scatenante che crea al bevitore delle aspettative. È il precursore di tutti gli altri sensi. Una birra limpida di un bel colore brillante, dorato o ramato, stimola il cervello che, a livello inconscio tenterà di presagirne l’aroma e il gusto prima ancora di avvicinare il bicchiere al naso e/o alla bocca. Oltre alla schiuma, l’attenzione si concentra sul colore e sulla limpidezza, non sempre in questo ordine. Un colore brillante, tuttavia, non sempre è sinonimo di una birra ben riuscita. Se, per esempio, una birra servita come Irish Red dovesse apparire di un bel dorato brillante o, al contrario, di un ambrato molto scuro, inconsciamente il cervello considererebbe queste tonalità sbagliate, e quindi, un difetto. Il colore di una birra ad un occhio allenato dice già molto sugli ingredienti utilizzati e sulle procedure adottate per la sua produzione. L’utilizzo di malti scuri per la preparazione di una Blond Ale, oltre a comprometterne il colore, ne caratterizzano l’aroma ed il gusto per cui, se ci viene presentata una birra che dovrebbe essere bionda ed invece è rossa o bruna, il colore e/o la sua limpidezza sono gli ultimi dei problemi; il vero difetto è l’uso di malti che per lo stile in oggetto c’entrano come i cavoli a merenda.

La limpidezza è un altro aspetto visivo molto importante, che pregiudica quello che sarà poi l’assaggio. La velatura più o meno intensa della birra è dovuta principalmente ai lieviti in sospensione e/o a micro-coaguli di proteine, ed è sempre un difetto anche se tollerato in alcuni stili birrari. Le cause della torbidità di una birra sono da ricercare, principalmente, nel tipo di lievito utilizzato. La flocculazione del lievito è quella fase in cui le cellule, durante il ciclo fermentativo, tendono ad agglomerarsi tra loro. Colonie di grandi dimensioni sono indice di ceppi maggiormente flocculanti e più queste colonie crescono di dimensione, più rapidamente precipitano, sedimentando sul fondo del fermentatore a fine fermentazione. Nei ceppi a bassa flocculazione, le cellule tendono a riunirsi in colonie di piccole dimensioni o non agglomerarsi affatto, restando in sospensione nella birra. Ciò comporta la classica velatura da lievito riscontrabile in alcune birre. Sebbene nelle birre di frumento una certa opalescenza è tollerata, in stili a bassa fermentazione, come le Pils e le Lager, non è mai apprezzabile. La microfiltrazione operata dai grandi birrifici commerciali permette di rimuovere i residui di lievito e di luppolo ed i coaguli di proteine, restituendo birre dalla limpidezza impeccabile. Tuttavia, assieme alle suddette sostanze, vengono filtrati diversi composti che arricchiscono la birra sul piano organolettico, ed è per questo motivo che i birrifici artigianali ci tengono particolarmente a riportare sull’etichetta la dicitura “NON FILTRATA”. Inoltre, lavorando in isobarico, o carbonando forzatamente la birra tramite immissione diretta di CO2, non devono rifermentare in bottiglia, evitando quindi di imbottigliare zuccheri e lieviti vivi che apportano inevitabilmente torbidità al prodotto. Tuttavia, piccoli sedimenti di lievito sul fondo della bottiglia forniscono al bevitore la certezza che si tratti di un prodotto artigianale e di qualità, purché i sedimenti restino contenuti. Teniamo sempre a mente, però, che in presenza di colpi di calore, il lievito inizia a decomporsi, con conseguenze poco piacevoli, non solo nell’aspetto visivo.

Come accennato poc’anzi, anche il livello proteico dei cereali è spesso indice premonitore della torbidità della birra. L’effetto “chill haze”, ossia l’intorbidimento della birra portata a temperature di servizio, è una caratteristica visiva che non piace ai più ed è la conferma che il contenuto proteico nella birra servita è ancora molto squilibrato. Le già menzionate birre di frumento, che fanno grande uso di cereali non maltati e/o in fiocchi, sono il tipico esempio. Alcuni malti posseggono un potere proteico maggiore rispetto ad altri, mentre i cereali non maltati, sono particolarmente ricchi di proteine, poiché le loro catene sono ancora intatte, non avendo subito alcun processo di maltazione. L’uso di questi ingredienti comporta una inevitabile velatura della birra, se il mosto non viene trattato con le giuste contromisure. Tuttavia, la maggior parte dei malti oggi in commercio ha subito, già durante la maltazione, un buon livello di degradazione dei legami proteici, raggiungendo un grado di modificazione sufficientemente alto da non necessitare di ulteriori trattamenti durante l’ammostamento. Ciononostante, nei casi in cui parte del grist è composto da cereali non maltati, si rende necessario effettuare la pausa di proteasi. In poco più di una decina di minuti, ad una temperatura tra i 50°C ed i 57°C, gli enzimi proteolitici riescono a scindere gran parte delle catene proteiche non ancora modificate dalle malterie, restituendo una birra più limpida. Il luppolo, quando aggiunto in ingenti quantità, diventa un’altra causa della torbidità nella birra. I polifenoli, legandosi alle proteine presenti nel mosto, aumentano l’effetto haze in birre fredde. Tuttavia, nelle birre particolarmente luppolate non viene fatto largo uso di cereali non maltati, eccezion fatta per le New England India Pale Ale, dove l’alto grado di opalescenza è ammesso, ma non propriamente ricercato. Queste ricette sono state formulate allo scopo di fornire alla birra una predominante componente luppolata, sopra un corpo pieno che apporti una sensazione boccale vellutata. Per raggiungere questo obbiettivo, vengono quindi utilizzate, grandi quantità di luppolo e di cereali non maltati e, per questi motivi, il risultato non potrà mai essere limpido. Non a caso questo genere di birra viene anche chiamato Juicy IPA, proprio per la somiglianza visiva ad un succo di frutta.

Schiuma.

Ultima ma non meno importante è la schiuma, che la birra produce quando viene versata nel bicchiere. È considerata buona, una schiuma che forma un abbondante cappello di bolle fini e compatte sulla superficie della birra. Deve persistere a lungo, al fine di mantenere isolata la bevanda dall’ossigeno presente nell’ambiente. Durante la bevuta, deve formare una corona all’interno del bicchiere e lasciare tracce di sé anche quando la birra è terminata. La conformazione e la persistenza della schiuma sono indici che sottolineano la buona riuscita della ricetta e la corretta applicazione delle tecniche utilizzate durante tutto il processo produttivo, dalla molitura dei grani alla maturazione della birra. Le cause di una rapida sparizione della schiuma sono molteplici, ma perlopiù imputabili ad un basso contenuto di proteine a catena medio-lunga. Una prolungata sosta in ammostamento durante la pausa proteolitica riduce la capacità delle proteine estratte dai cereali, di formare e mantenere la schiuma. L’uso di cereali non maltati o in fiocchi, come l’avena, che tra l’altro contiene anche una buona percentuale di sostanze lipidiche in grado di aumentare la resistenza alla tensione delle bolle, può migliorare la formazione e la tenuta della schiuma. Anche l’aggiunta in percentuali del 15-20% di malto destrinico nel grist, può contribuire positivamente allo scopo. Inoltre, una corretta carbonatazione in fase di imbottigliamento conferisce alla birra la giusta quantità di schiuma in accordo con lo stile prodotto.